Ferdinando Petruccelli della Gattina
(ultimo aggiornamento : 01/02/2013 - last update 02/01/2013 )
UNA DELLE PENNE PIÙ VIVACI E
MORDENTI DEL SECONDO ‘800
UN FIGLIO DELLA “SELVAGGIA TERRA LUCANA”
di Annalisa Tarullo
L’immagine più nota di Ferdinando Petruccelli della
Gattina è quella immortalata in un ritratto che
lo mostra con candidi baffi, barba divisa in due folti sbuffi ripiegati sulle
gote, occhiali a stanghetta,
ampia fronte incorniciata dal candore di una corta capigliatura…
Questo scrittore, precursore del moderno giornalismo, battagliero, intrepido,
affascinate per la spregiudicatezza
delle sue tante opere, nacque il 28 agosto del 1815 a Moliterno, allora una
grossa borgata
della selvaggia terra lucana.
Quali presenze, quali episodi incisero indelebilmente sulla sua indole a
tratti dura, “difficile”, abbeverata
di odio contro i preti ed ogni forma di dispotismo?
Se davvero l’essenza caratteriale di ciascuno si plasma nei primi anni di
vita, quando la tenera età cede
sotto gli strali della superbia o della disattenzione degli adulti, per meglio
conoscere questo insolito personaggio, è necessario far rivivere ai lettori
qualche episodio di una biografia per molti versi densa
di “tristi avventure”.
Figlio di medico, a sua volta discendente di una famiglia di medici, il
piccolo Ferdinando aveva solo quattro anni quando fu mandato dalla vecchia
nonna materna, la baronessa Piccininni di
Marsicovetere, per ricevere i primi rudimenti educativi. La donna, timorata di
Dio ma severa fino alla crudeltà, intollerante dell’eccesso della vitalità del
nipotino, lo trattò con durezza, senza manifestargli mai alcun segno
d’affezione. E non l’educò, ne inasprì l’indole e non raccolse altro frutto
che un
profondo odio.
Divenuto più grandicello, lo zio Francesco - medico della famiglia dei Murat e
fondatore delle prime logge massoniche in Basilicata - lo rilegò nella
pensione dell’arciprete Cicchelli di Castel Saraceno.
Ancora una volta Ferdinando urtò contro un muro di severità, vittima di un
prete sanguigno, brutale, ignorante. In due anni di pensionato non apprese
nulla, se non a recitare a memoria lunghe litanie
religiose e a “sgorbiare” grossolanamente qualche foglio di carta. A quindici
anni non aveva ancora alcun tipo d’istruzione. Lo zio Francesco lo chiamò a sé
e, a riprova
della sua “infinita bontà”, lo rinchiuse nel seminario di Pozzuoli, allora
retto da monsignor Rossini, noto per i suoi metodi educativi polizieschi.
Al di là del rigorismo della disciplina, Ferdinando cominciò a scoprire il
valore dell’istruzione, destandosi lentamente da una sorta di letargo in cui
fino ad allora si era calato, unico baluardo contro una severità brutale,
spesso frutto di profonda grettezza morale.
Nonostante soffrisse per la nostalgia dei suoi amati monti e della mamma, il
lento fluire della vita in seminario avrebbe seguito il suo solito corso se
una insolita circostanza non avesse prodotto un nuovo intreccio…
Per la festa di S. Luigi ogni alunno doveva lasciare sull’altare una lettera
al santo protettore degli studenti in cui indicare, a “cuore aperto”, le
proprie preghiere. Ferdinando coraggiosamente espose la sua: essere liberato
dal vescovo Rossini! Il “buon” Monsignore aveva letto la lettera di ciascun
seminarista e, tra queste, quella di Ferdinando. La vendetta fu inesorabile:
prima la cella di isolamento, poi, all’arrivo dello zio prodigo di improperi,
schiaffi e minacce, l’allontanamento da Pozzuoli.
La burrasca passò e già una nuova sede di studi attendeva il piccolo
“ribelle”. Ferdinando aveva toccato la soglia dei diciassette anni e solo
allora, sebbene sottoposto ai metodi coercitivi di un seminario di gesuiti,
cominciò a pensare con la propria testa, a scrivere correttamente in latino, a
conoscere il greco.
Ma la dura disciplina delle istituzioni religiose accrebbe nel tempo una
profonda acredine in quel giovane, “profugo” da un collegio religioso
all’altro. La veste del seminario, una sorta di camicia di Nesso, lo soffocò,
lo ingabbiò; le regole gesuitiche, per altri amena dimensione, gli inasprirono
lo spirito. Non era nato per pregare né per ubbidire! E nel tempo non mitigò
il suo anticlericalismo. In una seduta del Parlamento del 26 marzo del ’61
sbottò furiosamente: “in ogni pagina della storia italiana quando noi leggiamo
che l’Italia ha versato una lacrima o una goccia di sangue, fu sempre un papa
ad esserne la causa…”
All’università di Napoli si iscrisse alla facoltà di medicina e conseguì il
diploma, ma la sua indole ed il suo ingegno gli additarono altre mete. Allora
nessun corso di studio offriva abbastanza ed egli sentì il bisogno di una
cultura “rinnovata”, i cui referenti non fossero castigati e severi uomini di
chiesa ma maestri figli di una nuova epoca. Egli, il barone Petruccelli, che
aveva aggiunto al suo cognome un altisonante “della Gattina”, dal nome di un
piccolo fondo lucano elevato a dignità di feudo, frequentò i corsi di storia
di Michelet, conobbe Daniele Manin, Proudhon, Darwin Parigi, Londra, Napoli
furono le tre capitali della sua vita, dove frequentò salotti culturali e
politici
spregiudicati e progressisti. E più di tutte Parigi, che lo conobbe come
Pierre Petit Oiseau de La Petite Chatte, lo accolse come una seconda patria.
PUBBLICISTA DALLA PENNA TEMPRATA A LAMA DI SPADA
…ILPUBBLICO DEI LETTORI
FACEVA RESSA AL SUO PULPITO E NE ASPETTAVA IL VERBO
Petruccelli della Gattina fece il suo ingresso nel mondo del giornalismo dal
1836. La sua prima collaborazione fu presso il Salvator Rosa di Napoli. Di ciò
che scriveva in riviste e giornali esteri ed italiani non serbò mai copia. Era
infatti fermamente convinto che “la robba dei diari è come la masserizia
muliebre delle donne: passabile quando in moda, cenci odiosi quando la moda
l’ha gittata dal trono”.
Ebbe amici tra i ministri, ma mai come giornalista si astenne dal lodarli o
dal biasimarli secondo la propria coscienza o a seconda delle loro azioni.
Coerente fino in fondo rimase fedele al motto: imparziale sempre, anche se
nuoce! E la coscienza del dovere gli nocque!
In un clima denso di tensione il 27 febbraio del ’48 il Petruccelli fondò il
giornale Mondo vecchio e Mondo nuovo. Il populismo giacobino, il radicalismo,
il polemismo, un’estrosa vivacità stilistica furono la vera anima del
quotidiano che nel suo primo numero così esordiva: “Nella pioggia de’
giornali, giornaloni, giornalini, giornalacci e giornaletti di ogni colore, di
nessun sapore, di ere vecchie e di ere e, tra queste, quella di Ferdinando. La
vendetta fu inesorabile: prima la cella di isolamento, poi, all’arrivo dello
zio prodigo di improperi, schiaffi e minacce, l’allontanamento da Pozzuoli.
La burrasca passò e già una nuova sede di studi attendeva il piccolo
“ribelle”. Ferdinando aveva toccato la soglia dei diciassette anni e solo
allora, sebbene sottoposto ai metodi coercitivi di un seminario di gesuiti, cominciò a pensare con la propria testa, a scrivere
correttamente in latino, a conoscere
il greco.
Ma la dura disciplina delle istituzioni religiose accrebbe nel tempo una
profonda acredine in quel giovane, “profugo” da un collegio religioso all’altro. La veste del seminario,
una sorta di camicia di
Nesso, lo soffocò, lo ingabbiò; le regole gesuitiche, per altri amena
dimensione, gli inasprirono lo spirito. Non era nato per pregare né per ubbidire! E nel tempo non mitigò il suo
anticlericalismo. In una
seduta del Parlamento del 26 marzo del ’61 sbottò furiosamente: “in ogni
pagina della storia italiana
quando noi leggiamo che l’Italia ha versato una lacrima o una goccia di
sangue, fu sempre un papa ad
esserne la causa…”
All’università di Napoli si iscrisse alla facoltà di medicina e conseguì il
diploma, ma la sua indole ed
il suo ingegno gli additarono altre mete. Allora nessun corso di studio
offriva abbastanza ed egli sentì
il bisogno di una cultura “rinnovata”, i cui referenti non fossero castigati e
severi uomini di chiesa ma
maestri figli di una nuova epoca. Egli, il barone Petruccelli, che aveva
aggiunto al suo cognome un
altisonante “della Gattina”, dal nome di un piccolo fondo lucano elevato a
dignità di feudo, frequentò
i corsi di storia di Michelet, conobbe Daniele Manin, Proudhon, Darwin
Parigi, Londra, Napoli furono le tre capitali della sua vita, dove frequentò
salotti culturali e politici
spregiudicati e progressisti. E più di tutte Parigi, che lo conobbe come
Pierre Petit Oiseau de La Petite
Chatte, lo accolse come una seconda patria.
“Nella
pioggia de’ giornali,
giornaloni, giornalini, giornalacci e giornaletti di ogni colore, di nessun
sapore, di ere vecchie e di ere
nuove…facciamo anche noi mettere il naso fuori, non so con quanto piacere di
taluni, ma certo con gioia
infinita di molti, questo satanetto, che uscirà tutti i giorni, ovvero con il
suo comodo, a svelare il mistero
della storia passata e presente…”. La firma apposta era quella dei Tredici, i
Tredici della disfatta di
Barletta che, insieme al Direttore, potevano ben rappresentare il binomio
vivente di una vita fatta di
lotta politica e di attenta documentazione giornalistica.
Il quotidiano non ebbe vita facile: lo polizia lo tenne d’occhio e, quando non
bastò la censura, lo
sospese. Petruccelli fiero ed indomito non si arrese: il giornale risorse con
un nuovo nome: Un altro
mondo. Nessun risultato, una nuova sospensione, un nuovo nome: Il finimondo.
Una nuova morte,
una nuova risurrezione: Così va il mondo… E dopo una lenta agonia, quella
creatura intimamente
nutrita, giunse al capolinea. Ma il giornalista non depose la penna temprata a
lama di spada, ancora ben appuntita e pronta a ferire e a difendere.
Nel 1848 i cittadini del distretto di Melfi lo elessero come loro
rappresentante al Parlamento
Napoletano. Il 15 maggio delle stesso anno, nelle vesti di deputato, il
Petruccelli fu tra i primi ad
insorgere nella metropoli partenopea contro il re Ferdinando II, intenzionato
ad apportare modifiche
alla Costituzione del 10 febbraio. Si spostò in Calabria dove guidò i moti di
quell’anno e per circa un
anno, ricercato dalla polizia, vagò nell’entroterra di questa regione, della
Basilicata e del Cilento.
Riuscì a ritornare a Napoli e ad imbarcarsi clandestinamente alla volta di
Parigi prima e di Londra poi.
Apprese la lingua francese, la interiorizzò e se ne servì come di un pregevole
biglietto da visita quando gli furono aperte le porte del prestigioso quotidiano parigino Le Presse,
destinatario delle lettere che
Petruccelli, deputato al primo Parlamento dell’Italia unita, inviò per
illuminare i lettori francesi dei
prestigiosi protagonisti del Risorgimento italiano, da Cavour a Garibaldi.
Peyrat, direttore del quotidiano, fu entusiasta e allo stesso tempo stupito di
vedere uno straniero scrivere la sua lingua con una naturalezza ed una chiarezza rara anche tra
francesi.
In Italia la reazione fu diversa: la franchezza con cui l’autore si era
espresso suonò oltraggiosa ad illustri personaggi e non rimase che raccogliere le corrispondenze in volume o in
fascicoli, più volte
ristampati, spesso alla macchia, con titoli assai beffardi. In un’edizione del
1862 si intitolò: I morti di
Palazzo Carignano e i loro becchini; autore: Un diavolo; editore: Inferno, pe’
i titoli di Lucifero.
Altre riviste francesi e della capitale belga lo ebbero come corrispondente:
“I giornali di alto cartello -
osservò ammirato il Racioppi - nonché accettare, chiedevano la sua
collaborazione, perché il pubblico dei
lettori faceva ressa al suo pulpito e ne aspettava il verbo”.
PETRUCCELLI DELLA GATTINA CORRISPONDENTE DI GUERRA
REPORTAGE DAL FRONTE DI CUSTOZA, UN QUADRO DI AGONIA CRUDELMENTE VERO
Nel 1860, quando si schiuse all’Italia il sorriso della libertà, il
Petruccelli ritornò in patria. Così scrisse di sé, con una nota di evidente rammarico, al suo rientro dall’esilio: “Mi
occupavo a ristaurare la mia
fortuna intaccata al vivo e ad accomodarmi con creditori e debitori…La mia
penna era il mio feudo più
reale e mi produceva diecimila franchi all’anno…per un uomo che aveva vissuto
Dio solo sa come nell’esilio
per parecchi anni, questa piccola rendita era il riposo, l’indipendenza, la
comodità…”.
E venne il tempo delle elezioni: la scelta ricadde su di lui come deputato al
Parlamento per il distretto
di Brienza prima e di Teggiano poi.
La cronaca del 24 giugno 1866 annovera Ferdinando Petruccelli tra i
corrispondenti di guerra del
Journal Des Dèbats.
Le sue lettere al grande giornale divennero famose e senza pari rimase quella
in cui l’intrepido corrispondente
narrò la sua visita al fronte, all’indomani della battaglia di Custoza. La
narrazione indugiava
su particolari raccapriccianti che ben addentravano i lettori in uno scenario
angoscioso, macabro:
il fioco bagliore delle lanterne dell’ambulanza, i mucchi di cadaveri
infranti, il lamento de’ feriti, lo
strazio dei mutilati… “Non è lettera scritta dal campo - commentò il suo
conterraneo Racioppi - è un’opera
d’arte”.
Giulio Claretie, ammiratore di questo eccellente corrispondente, nel Figaro
del dicembre del 1895
ritrasse in poche battute l’effervescente Petruccelli: “Diceva tutto nelle sue
corrispondenze, questo uomo
diabolico, e bisognava tagliarne le frasi mordenti e feroci, attenuare,
velarne il pensiero. Renan in persona
s’incaricava di tale cura, per avere il piacere di gustare in precedenza, di
assaporare allo stato inedito le indiscrete
confidenze del Petruccelli…”. Il reportage dal fronte di Custoza, penetrante
per il quadro di agonia
descritto, crudelmente vero, si impossessò degli animi. Ma quelle
corrispondenze piacevano al
Renan, non al quartiere generale dell’Italia che, con tutta probabilità,
costrinse il Petruccelli a tornare
in Francia.
Il collegio di Brienza e quello di Acerenza crearono il vuoto intono a lui.
Partì e nel 1867 a Londra
conobbe la sua futura moglie, Maude Paley- Baronet, una colta e raffinata
signora inglese che amorevolmente
gli stette accanto fino alla fine dei suoi giorni.
GIUSTINO FORTUNATO INCONTRA IL “ROBESPIERRE REDIVIVO”
NASCE UN’AMICIZIA…LA SORPRESA…
Giustino Fortunato conobbe il Petruccelli soltanto nel giugno dell’80, a Roma.
Ancora adolescente
aveva sentito pronunziare il nome di quel ribelle da suo padre che, infiammato
d’ira, lo definiva un
Robespierre redivivo. Ciononostante, pur non riuscendo a dissociare nella
mente il suo dal terribile
nome del famoso giacobino, divorò i suoi libri, introvabili, e le sue
interminabili corrispondenze
romane al Pungolo.
Il Fortunato entrato a Montecitorio non si curò di farne la conoscenza, né
quel vecchio solitario, dall’aspetto burbero, miope, paralitico del braccio sinistro sembrava
incoraggiare un eventuale approccio.
Con grande meraviglia fu proprio lui, il Petruccelli, ad andargli incontro:
cominciò a discutere con
semplicità, con cordialità, come se si conoscessero da tempo. Appariva
cadente, assai meno per gli anni
che per le lunghe fatiche: la dura vita del giornale quotidiano sembrava
averlo duramente spossato. Si
era miracolosamente salvato da un attacco di apoplessia che gli avrebbe reso
la vita insopportabile
senza le amorevoli cure di Maude, sua moglie.
Il vecchio, burbero a detta di molti, lo invitò a casa sua: “cinque camere ad
un quinto piano, sotto la
volta dell’asfalto, assiderate d’inverno, bruciate d’estate, con un portiere
intermittente, senza mobili, al prezzo
di cento settanta lire mensili anticipate!”.
Quell’insolito personaggio creava stupore, curiosità inappagata, sconcerto…
“Era infatti, come nessun
altro da me conosciuto - confessò Giustino Fortunato - stufo di vivere; stufo,
soprattutto, della memoria
di sé: ed ogni tentativo per indurlo a discorrere de’ casi e degli uomini
della sua giovinezza, riuscì vano,
tanto egli deliberatamente rifuggiva del ritornarci su…Il passato non aveva
più, per lui, né odi né
amori…Il solo presente, come annunzio ed augurio futuro, gli ridava l’antica
inesauribile vena d’intuizione
e di parola…”.
L’amicizia tra i due si rinsaldò, nutrita dal comune convincimento che l’unità
politica costituisse la
sola custodia, l’ultima speranza del Mezzogiorno. Così, fin quando il
Petruccelli non abbandonò
Roma per recarsi a Londra, la frequentazione fu assidua. Il Fortunato scoprì
un nuovo volto di quel
vecchio burbero, per definizione comune “intrattabile”, “cattiva lingua”,
“sprezzante degli uomini e
delle cose”: l’uomo era in realtà il contrapposto della leggenda!
ANNO 1890: LA FINE DELL’ESULE LUCANO
MUORE IL CRONISTA DI INDIMENTICABILI PAGINE DI STORIA ITALIANA
Gli ultimi anni di vita furono assai difficili per il Petruccelli. Ormai
paralitico non poteva più impugnare
la penna, ma “per metter pane sulla tavola e far bollire la pentola” continuò
a lavorare, dettando
“interminabili” appunti alla moglie. Il suo attivismo cerebrale non avvertiva
la sferza della malattia:
“Egli vive perpetuamente in un mondo ideale - scrisse la sua compagna -si
distrae dalla vita, dal medio
in cui è. Il suo spirito medita sempre qualche cosa... Il suo cervello mai in
riposo… Egli è in una gestazione,
in una creazione perpetua. E quando non crea, classifica nella sua memoria,
ciò che vide, ciò che lesse,
ciò che udì; passa in rivista i personaggi cui poscia mette al mondo ne’ suoi
romanzi. Il suo cervello è un
museo di ritratti viventi, o morti, o in embrione: è una biblioteca dove per
anni accumulò il molteplice,
benché un poco superficiale, suo enciclopedico sapere …”
Ma più della malattia dovette gravare sul suo animo la maldicenza di molti,
dimentichi di quanto avesse
fatto e patito per il suo paese, lavoro pertinace al servizio di una madrigna!
Il 25 marzo del 1890, a Parigi, la morte lo sottrasse all’eterno vagabondare
dello spirito e della persona.
Alla moglie non rimase altra eredità che il ricordo di pochi anni, difficili
ma intensi, i suoi manoscritti
ed una sua ultima volontà da esaudire: spargere le sue ceneri sul suolo
inglese.
Fonte: Basilicatanet.it
Link documento originale: http://www.consiglio.basilicata.it/conoscerebasilicata/cultura/giornalisti/scheda_FPetruccelli.pdf
Altre risorse dal web:
Google Libri:
I moribondi del Palazzo Garignano (Opera originale completa)
Liber Liber http://www.liberliber.it/biblioteca/p/petruccelli_della_gattina/index.htm
La Pagina di GINGEN - Un punto di contatto per i Lucani nel Mondo
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